Inbound Marketing: cos’è. Definizione della metodologia


05/05/2023
Fabio Di Gaetano
Strategist e Department Manager
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Fabio Di Gaetano
Strategist e Department Manager
Dal 2003 mi occupo di marketing e strategie digitali al servizio del business e ho contribuito a fondare il team Argoserv.
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Fabio Di Gaetano
Sono autore del libro SEO Energy e fra gli autori del Manuale Ninja del Web Marketing: sono docente e formatore per Ninja Academy, la business school del “Il Sole 24 Ore” e lo IUL.

L’inbound marketing è la branca del marketing digitale che studia come intercettare potenziali clienti online per attrarli nell’orbita dell’azienda o del professionista cercando di ampliarne l’audience e “convertire” le visite in lead (c.d. lead generation), prospect, contratti e clienti fidelizzati (a tal punto da farne dei brand evangelist spontanei).

Come funziona L’inbound Marketing: le 4 fasi del processo

La metodologia si fonda sul “lifelong cicle” che è il plus dell’inbound rispetto ad un’attività SEO, di social media, di Content Marketing e mail marketing tradizionale, condotta senza un piano e con modalità più o meno lasciate al caso (senza metriche e benchmark per la misurazione del ritorno sull’investimento o per la valutazione approssimativa dell’efficacia di ciò che si sta facendo).

HubSpot, la prima azienda a parlare di Inbound in America, spiega con un grafico esemplificativo il funzionamento del metodo.  

Il procedimento poggia su quattro pilastri/verbi chiave ai quali corrispondono altrettante fasi: 

  1. Attrarre 
  2. Convertire 
  3. Chiudere (trasformare in clienti) 
  4. Deliziare

Fase 1: Attrarre (visitatori qualificati) con l’Inbound Marketing

Obiettivo: Portare sul sito i soggetti giusti, quelli cioè interessanti per i nostri obiettivi aziendali.  

Da bravo marketer o imprenditore non mi interessano visite generiche ma solo visite qualificate
Per qualsiasi strategia di incremento di potenziali clienti è scontato che attrarre costituisca il prius logico e cronologico del procedimento.

Tanto più l’imbocco dell’imbuto sarà largo tante più opportunità fornirò alla mia azienda. 

Per riuscire nell’intento, per poter intercettare visitatori, c’è bisogno di essere visibili sui motori di ricerca: non solo bisogna essere ben posizionati, con una presenza massiccia nelle keywords long tail ma bisogna anche mostrare title e description interessanti e pertinenti, rich snippet, segnali social che invoglino il cliente a cliccare sulla nostra pagina. 

Lo stesso scopo deve essere raggiunto tramite Facebook, Linkedin, Instagram, TikTok (chi più ne ha più ne metta) e il blog, con la pubblicazione di contenuti utili ed interessanti rispettando le best practice proprie di tali mezzi.  

Una volta attratti sul sito con le modalità descritte, conditio sine qua non per un buon lavoro di inbound è che le nostre pagine siano strutturate in modo da invogliare a leggere il contenuto pubblicato.  

Occorre cioè una buona struttura delle pagine del sito (un buon design) in grado di assicurare una buona user experience utile nel contempo alle nostre finalità. 

Fase 2: Convertire (i visitatori in lead)

È questa la fase di fondamentale importanza su cui poggia tutta l’impalcatura dell’inbound.  

Infatti sempre citando Hubspot “una volta che i visitatori sono arrivati al tuo sito, il passaggio successivo è quello di convertire i visitatori in lead raccogliendo le loro informazioni personali. Quanto meno c’è bisogno che ti lascino l’indirizzo email. Le informazioni personali sono la merce più preziosa del web marketer”. 

Nei corsi tenuti alla Ninja Academy e alla Business School del “ilsole24ore”, ed ai nostri clienti abbiamo più volte ribadito come per fare le fortune di aziende e professionisti si deve studiare una strategia per trasformare degli estranei in clienti.  

La chiave per riuscire in tale delicato compito, secondo la software house, è la profilazione del cliente che lascia i suoi dati in cambio del contenuto da noi fornito.  

L’idea vincente che sta alla base dell’inbound è trattare in maniera differente, tramite una gestione intelligente del contenuto, la propria audience, a seconda dello stadio del funnel in cui si trova. 

Poiché la gestione razionale e automatizzata (cioè un software) è proprio il prodotto che Hubspot vende, naturalmente l’enfasi è un po’ accentuata.  

Ma il concetto è di per sé valido indipendentemente dall’utilizzo di un gestionale.  

Infatti nel mercato reale, fra i nostri potenziali clienti, c’è chi cerca informazioni sul prodotto o servizio, chi è pronto ad acquistare, chi compara i prezzi, chi si vuole informare sull’assistenza, chi chiede consigli su come utilizzare al meglio il prodotto dopo l’acquisto ecc. 

Dare ad ognuno la giusta informazione tailor made è la strategia che può risultare vincente. 

Quali sono gli strumenti per far sì che il cliente sia invogliato a lasciare i suoi dati personali? 

  1. Le call to action il cui scopo è sollecitare l’azione del visitatore e indirizzarlo verso le landing page;
  2. Le landing page, ovvero le pagine in cui il visitatore riceve ciò che gli viene promesso in cambio dei suoi dati personali (articoli, video, e-book , webinar);
  3. I form, cioè i moduli da compilare con i dati personali. Se il cliente lascia le sue generalità, la fase della conversione ha avuto successo perché il visitatore è diventato lead o prospect, cioè cliente potenziale;
  4. Un database efficiente per gestire tutte le informazioni a disposizione. 

Fase 3: Chiudere (trasformare in clienti)

È questa la fase in cui si monetizza, quella vitale per qualsiasi business. Se con tutti gli sforzi non riusciamo a portare a casa il contratto significa che non siamo bravi imprenditori o marketer, o che non abbiamo una buona forza vendita, o che ci sono dei problemi nel prodotto o servizio che offriamo. 

Anche in questo segmento del procedimento la gestione differenziata del cliente porta i suoi frutti.  

Per supportare le vendite il bravo marketer deve mandare le giuste mail ai prospect, deve interfacciarsi con i venditori dando informazioni utili sul cliente, in modo di fornire tutto il supporto necessario per portare a casa dei risultati

Fase 4: Deliziare (da cliente a promotore spontaneo) 

Obiettivo: continuare a interagire col cliente anche dopo che ha acquistato il nostro prodotto/servizio.  

È una fase che le aziende trascurano ma che invece se ben strutturata è importantissima specie per il diffondersi del passaparola, del buzz intorno al brand

L’ideale è che i nostri clienti si trasformino in promotori della nostra azienda.  

Cosa c’è di meglio di un cliente soddisfatto?  

Tripadvisor,Amazon, Ebay, e numerosi altri colossi imperniano i propri business sui giudizi dei clienti: immagina cosa può voler dire avere un evangelist spontaneo!  

La relazione col cliente va coltivata quindi nel tempo. 

Inoltre così facendo si possono sempre suggerire vendite di beni o servizi ulteriori, e si possono utilizzare mail e social per fornire un ottimo servizio di customer service real time. 
Vale la pena quindi continuare l’attività dell’inbound anche nel post vendita. 

L’ inbound marketing acquista sempre maggiore terreno (rispetto ai canali classici dell’advertising) in quanto asseconda le modalità secondo cui i clienti effettuano le proprie scelte di acquisto: i consumatori infatti usano internet per acquisire informazioni sui prodotti e servizi che rispondono meglio alle proprie necessità. 

Gli inbound marketer offrono ai propri clienti informazioni e tool utili per attrarre verso il proprio sito nuovi prospect, e nello stesso tempo interagiscono e sviluppano relazioni con questi potenziali clienti. 

I principi del metodo

Riassumendo, i principi fondamentali su cui fa leva l’ inbound marketing sono i seguenti: 

  • il permission marketing. Il cliente non va interrotto , ma va attratto. Dobbiamo far sì che il nostro potenziale cliente ci trovi nei luoghi virtuali in cui egli s’informa, si diverte, acquista ecc; 
  • il contenuto sia esso testuale, fotografico, video ecc è lo strumento principe per la lead generation prima e per l’acquisizione di clienti e la creazione di un legame stabile con essi (content marketing); 
  • il Sito Web è il fulcro di tutto il processo. 

Differenze fra Inbound e Outbound: 

Dall’outbound all’inbound: dal megafono (o martello) alla calamita 

I marketer prima dell’avvento di Internet, avevano sviluppato un tipo di messaggio one to many. L’azienda dava le direttive e l’agenzia pubblicitaria elaborava una storia da raccontare e da trasmettere per colpire il target”bersaglio”. Lo storytelling, è stata sempre una tecnica utilizzata dai marketer, che implicitamente o esplicitamente veicolavano con uno spot o con immagini o jingle, emozioni, valori, stili di vita che andavano a “colpire” il target prescelto. 

La storia raccontata era però un monologo: l’uditorio, il consumatore, non avevano alcuna opportunità di interagire col messaggio e fare sentire la propria voce. Il brand veniva costruito a tavolino ed il messaggio veniva diffuso con un martellamento tramite radio, televisione, giornali, riviste, poster, fiere di settore ed arrivava all’acquirente che subiva passivamente. 

Questo modo di ragionare era diffuso e tipico dell’era della produzione di massa Fordista Tailorista (i clienti possono scegliere tutti i colori della Ford T che vogliono purché le auto siano nere” diceva Ford) e l’interazione col pubblico era pressoché assente. Lo stesso schema si ripeteva in tutti i tipi di mercati: il mercato politico funzionava con il medesimo sistema. Come insegna McLuhan, il medium è il messaggio: radio, televisione e stampa per come si sono andate strutturando nel tempo hanno favorito tale tipo di comunicazione. 

Prima di Internet, per reclamizzare un brand o un prodotto (o un politico), la ricetta era semplice: si investiva in campagne televisive e/o radiofoniche, si acquistavano pagine di giornali o di riviste patinate, si partecipava a fiere di settore (tribune elettorali), si faceva telemarketing. 

Poiché gli spazi disponibili erano limitati, per gli ultimi arrivati, con poche risorse, era difficile entrare. Per cercare di cambiare le regole del gioco già negli anni ’80 erano state ideate e teorizzate le azioni di guerrilla marketing ma la loro efficacia era limitata entro gli angusti confini consentiti dalla tecnologia e le campagne low cost si propagavano in maniera molto lenta e farraginosa. La regola era la seguente: per essere efficaci si doveva in genere disporre di grossi budget per acquistare visibilità.

Non mancavano prima dell’era di Internet aziende che avevano provato ad usare il content marketing, si pensi a Louis Vuitton, con le guide delle città o a GE con i suoi comics per migliorare l’immagine del nucleare ma sicuramente erano tentativi sporadici non mainstream. Anche la scelta dei termini utilizzati era sinonimo della considerazione che si aveva del cliente: era un bersaglio da colpire (plagiare) non qualcuno da attrarre.

Il lavoro del marketer era paragonabile a quello del bravo giocatore di Risiko: doveva conquistare fette sempre più importanti di mercato con l’utilizzo dei carri armati e dei dadi. La stessa direzione delle aziende era di tipo bottom-up veniva dall’alto e la base della piramide non solo non aveva alcun potere decisionale ma non poteva neanche permettersi di discutere gli ordini (oggi fortunatamente parliamo di direttive). Invece l’avvento di Internet, la possibilità data a tutti di poter far sentire la propria voce, lo sviluppo dei blog e dei social network, l’empowerment di consumatori e dipendenti hanno cambiato completamente le regole del gioco. 

Non basta scrivere una storia a tavolino, non basta narrare, non è sufficiente acquistare spazi o partecipare a fiere: la trasformazione del consumatore in prosumer richiede di un cambiamento “spirituale” del marketer e del brand che, non deve focalizzare la sua azione verso dei bersagli, ma deve tornare a dialogare con le persone. Internet è fondamentalmente questo: parlare, dialogare con il pubblico, raccontando una storia in divenire la cui trama è scritta insieme all’uditorio. La relazione che il brand riuscirà ad instaurare col cliente segnerà il suo successo o la sua sconfitta. I marchi di successo non saranno percepiti come commodity ma come entità in grado di emozionare, soddisfare i propri bisogni, rispondere alle domande. 

Le competenze dell’inbound Marketer

Il bravo inbound marketer è colui che utilizza SEO, SEM, Content Marketing, Social Media Marketing e Mail Marketing in maniera strategica:  

  • monitorando le giuste metriche (kpi);
  • predisponendo i contenuti opportuni per il lavoro di lead nurturing;
  • scegliendo gli adeguati “trigger” di conversione e svolgendo un’attività di analisi e test continui (c.d. fine tuning) affinché il ritorno della propria attività digitale sia massimo. 

I Vantaggi dell’inbound

Appare evidente che ci troviamo dinanzi a strumenti tipo pull piuttosto che push, e che, rispetto a passaggi pubblicitari e campagne di telemarketing ad esempio, presenta i seguenti vantaggi: 

1. rapporto costi/benefici misurabile (creare contenuti di qualità in determinati ambiti può non essere poi così tanto economico); 
2.clienti profilati ed interessati che chiedono informazioni sui prodotti e servizi offerti; 
3.capacità di creare un legame stabile con i propri prospect e clienti (lifecycle marketing). 

Il concetto è chiaro e semplice, il difficile è come riuscire nell’intento, perché per farsi trovare dove il cliente cerca, bisogna conoscere e padroneggiare le logiche del marketing e degli strumenti digitali. 

Come e cosa misurare: Roi e KPI

La segmentazione del funnel e il monitoring dei risultati 

Più che la gestione tecnica e meccanizzata (peraltro utile) della metodologia descritta, il dato più interessante e replicabile è la logica seguita.  

La segmentazione del procedimento, tra l’altro, consente la possibilità di misurare i risultati conseguiti (siano esse visite, prospect, contratti) in ogni singola fase del funnel. 

Accade spesso che in ambito social media e SEO le agenzie trascurino di fare il rendiconto della propria attività o si limitino a dare dati inutili per il cliente, della serie “abbiamo raggiunto tale posizione per questa keyword, abbiamo x link in entrata, abbiamo 10.000 fan” (magari comprati).  

Come si traduce questo in termini di visite, di tempo di permanenza sul sito, di lead, di acquisizione di dati sensibili per il nostro business e di informazioni utili per la conclusione dei contratti e delle vendite

Sono queste le domande a cui i professionisti del settore devono rispondere, poiché il cliente è sempre più attento al ritorno di ogni centesimo speso.   

I canali da utilizzare

  • Sito aziendale;
  • E-mail:
  • Google;
  • Instagram;
  • TikTok;
  • Facebook;
  • Twitter;
  • Youtube;
  • Google Maps;
  • Pinterest;
  • Flickr;

I tool dell’Inbound Marketing

Dare ad ognuno la giusta informazione tailor made è la strategia vincente.  

Quali sono gli strumenti per far sì che il cliente sia invogliato a lasciare i suoi dati personali? 

  • Le call to action il cui scopo è sollecitare l’azione del visitatore e indirizzarlo verso le landing page; 
  • Le landing page, ovvero le pagine in cui il visitatore riceve ciò che gli viene promesso in cambio dei suoi dati personali (articoli, video, e-book , webinar);
  • I form, cioè i moduli da compilare con i dati personali. Se il cliente lascia le sue generalità, la fase della conversione ha avuto successo perché il visitatore è diventato lead o prospect, cioè cliente potenziale;
  • Un database efficiente per gestire tutte le informazioni a disposizione. 

Cos’è il buyer’s journey e perché bisogna studiarlo? 

Per poter ottimizzare il ritorno dell’attività di inbound marketing è necessario studiare il percorso digitale (c.d. buyer’s Journey) dei nostri potenziali clienti per capire quali siano i punti di contatto (touchpoint) con la nostra azienda online.

Questo per due ordini di ragioni: 

  1. per poter attrarre nella nostra orbita il maggior numero di utenti; 
  2. per poter studiare per ogni touchpoint il giusto contenuto da veicolare e i giusti strumenti (cta, landing page, forme ecc) da utilizzare, a seconda delle nostre finalità. 

La buyer persona: cos’è e come si delinea 

La buyer persona è una rappresentazione fittizia del nostro cliente potenziale. 

Se vogliamo ottimizzare l’esperienza dell’utente nei punti di contatto digitali che intercettino il suo buyer’s journey, dobbiamo cercare di conoscere l’età, il sesso, le condizioni lavorative e sociali, le aspirazioni, le curiosità, le aspettative, gli interessi, gli hobby, le modalità di fruizione del web ed i device utilizzati dal nostro target potenziale. 

Per poter delineare il profilo della nostra “persona” dobbiamo sfruttare, sia gli indizi che possiamo raccogliere online, sia le informazioni che provengono dal mondo offline (se ne abbiamo i mezzi possiamo utilizzare sondaggi, panel, ma spesso e a costo zero, possiamo reperire una miniera di informazioni disponibili già in azienda). 

Naturalmente , nessun brand si rivolge ad un solo target: per questo motivo dobbiamo tracciare l’identikit di più personas in grado di rappresentare al meglio le tipologie di potenziali utenti interessati a quello che abbiamo da offrire . 

La buyer persona va definita in modo concreto: essa deve avere un nome, una foto, una professione (e chi più ne sa più ne metta), una situazione familiare e delle necessità concrete. 

Per ogni persona dovremmo disporre di una scheda dettagliata in grado di farci conoscere a fondo l’utente al quale effettivamente ci rivolgiamo e di consentirci di intercettarne i bisogni (l’empatia è la caratteristica poi importante per l’inbound marketer): per ogni profilo dovremmo avere un calendario editoriale di contenuti da proporre. 

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